“Lontano da Enna sei miglia è un luogo chiamato Romano, dove si vedono insino al d’oggi l’anticaglie d’una città, e d’una fortezza rovinate, di cui per ancora non si sa il nome”.
Così, nel 1558, lo storico domenicano Tommaso Fazello, considerato il padre della storia siciliana, descriveva, nella sua unica opera ”De rebus Siculis decades dua”, una parte del territorio oggi istituito a ‘Riserva naturale orientata di Rossomanno-Grottascura-Bellia’, dichiarata, inoltre, Sito di importanza comunitaria.
Questa area, estesa per più di 2000 ettari nella zona centrale della catena dei Monti Erei e situata tra i centri urbani dei comuni di Aidone, Piazza Armerina e Valguarnera, è caratterizzata da altipiani posti a quote di 600-800 m s. l. m., tra cui svetta il Monte Rossomanno con i suoi 885 metri. Si tratta di affioramenti litologici molto recenti dalle forme dolci ed attraversati da profondi solchi torrentizi tributari dei bacini del Simeto e del Salso Imera.
Nonostante la presenza di diversi torrenti, tra cui il Vallone Rossomanno, il Grottascura e il Cannarozzo, il suolo sabbioso della riserva assorbe le acque meteoriche, impedendo la formazione di veri e propri ambienti umidi.
Tutta la superficie dell’area protetta è costituita da depositi marini risalenti al Pliocene superiore, consistenti in arenarie e sabbie deltizie. Percorrendo la zona è possibile osservare concrezioni che assumono morfologie varie e spettacolari, come le famose ‘Pietre ballerine’ o ‘Pietre incantate’, oggetto di leggende contadine e pastorali, che le hanno definite simboli del demonio. Il loro fascino colpì profondamente il regista ennese Antonio Maddeo, il quale volle immortalarle nel suo film ‘Vovò’, dedicando loro una sequenza in cui evidenzia il loro aspetto antropomorfo. Lasciando spazio all’immaginazione, queste formazioni grigiastre di roccia quarzarenitica e di portamento colonnare, alte fino a 3 metri, assumono l’aspetto di persone impegnate in una danza festosa, rimaste pietrificate per un intervento divino o magico. La loro disposizione a guisa di ‘menhir’ ricorda ed ha fatto pensare più volte ad una disposizione intenzionale di queste pietre da parte dell’uomo in epoca preistorica, ma in realtà è più probabile che il tutto sia dovuto esclusivamente a fenomeni naturali. La loro genesi è dovuta alla formazione di correnti di torbida e ad un successivo processo di litificazione; il dilavamento ha poi allontanato la sabbia non compattata, mettendo a nudo le rocce. Si tratta di un fenomeno frequente in tutta la zona, che è disseminata di pietre simili anche di formato minore, alcune delle quali vengono spesso raccolte dai custodi dell’ Azienda forestale, che con esse ornano il vivaio.
La specie arborea principale è il Pino domestico (Pinus pinea), introdotto dall’ uomo, che copre l’area dal Monte Serra Casazze (893 m s.l.m.) al Monte Rossomanno (885 m s.l.m.) fino a Cozzo Bannata (866 m s.l.m.). La sua presenza a queste altitudini è un fatto inconsueto, perché solitamente questa specie vegetale vive ad altitudini comprese tra i 500-600 s.l.m. e in versanti rivolti verso la costa. La pineta purtroppo è spesso soggetta a tagli e incendi estivi, ma in alcuni punti sviluppa un portamento interessante, come sulle pendici ripide del monte Rossomanno, dove i Pini attecchiscono anche nei pendii più scoscesi.
Della vegetazione originaria resta solo qualche Roverella, mentre la maggior parte delle specie sono state introdotte dall’uomo nel corso degli anni, come il Noce (Juglans nigra), il Melo (Malus silvestris), il Pero (Pyrus communis), il Castagno (Castanea sativa), il Nocciolo (Corylus avellana), il Gelso nero (Morus nigra), il Cipresso (Cupressus sempervirens). Tra gli arbusti si possono osservare la Rosa canina (Rosa canina), il Biancospino (Crataegeus monogyna), arbusto spinoso alto un paio di metri, con corteccia grigiastra e fiorellini bianchi. Tra le piante erbacee dominano il Rovo (Rubus ulmifolius) con i suoi rami spinosi e aggrovigliati che offrono gustose more, la Salsapariglia (Smilax aspera) liana sempreverde con fusti flessuosi, dai fiori bianchi e profumati, che produce vistose bacche rosse, l’Aglio roseo, lo Zafferanastro, il Cardo mariano, l’Ampelodesma (Ampelodesmos mauritanicus) ed alcune specie di Orchidea: Ophrys galilaea, Ophrys tenthredinifera, Ophrys sphegodes, che conferiscono colore alle tonalità monocromatiche della riserva.
La fauna è quella tipica della Sicilia centrale ma poche specie animali vivono in questi boschi: è facile incontrare il Ramarro (Lacerta viridis), il Biacco (Coluber viridiflavus), che in Sicilia è presente in una varietà nera, senza le tipiche macchie gialle. Vive tra le rocce e i cespugli, nutrendosi di lucertole, rane, serpenti e piccoli mammiferi. Tra gli uccelli: lo Sparviere (Accipiter nisus), difficile da osservare, grande predatore, caccia piccoli uccelli, insetti, volando agile tra la vegetazione del bosco. All’inizio dell’estate la femmina depone 4-6 uova nei rami alti del bosco di conifere. Il Gheppio (Falco tinnunculus), un piccolo rapace diffuso un po’ ovunque nel territorio, che si nutre di lucertole e piccoli roditori utilizzando una caratteristica tecnica di caccia, detta dello “ Spirito Santo”, perché dopo essere stato immobile nel cielo, piomba all’improvviso sulla preda. La Gazza (Pica pica), ben adattata in tutti gli ambienti antropizzati, predilige i terreni coltivati e l’aperta campagna. Lo Storno nero (Sturnus unicolor), si trova nei boschi,e in aperta campagna. Al mattino si procura semi e frutti nelle zone agricole, al tramonto ritorna tra gli alberi aggregandosi ad altri storni, in formazioni numerose.
Ma la riserva nasconde tra i suoi boschi un patrimonio storico che ne amplifica il valore, assume l’aspetto di un parco archeologico circondato dal verde delle conifere. Essa protegge infatti un’area nella quale si sono succeduti diversi insediamenti umani nel corso del tempo, antropizzata fin dall’età del rame, come dimostrano i resti di un indigeno centro abitato di età arcaica, situato sull’altura centrale del sistema di colline, denominata Serra delle Casazze, da cui è possibile godere di un vasto panorama comprendente gran parte della Sicilia centrale. L’acropoli risale ad un periodo compreso tra il VII ed il V secolo a.C. e sono ancora ben visibili i resti della fortificazione che la proteggevano, costituiti da mura larghe circa 2 metri, postierle e torrette. A poca distanza, ai piedi di Rocca Crovacchio, è situata la necropoli, oggetto di studio di una serie di scavi archeologici condotti a partire dal 1978, che hanno portato alla luce le abitudini funerarie delle antiche popolazioni indigene. Da questi sono emerse evidenti tracce di riti di inumazione ad “enchitrismòs” e di incinerazione (comuni tra le popolazioni arcaiche siciliane) e il più atipico rito detto “campo di crani”, molto raro in Sicilia e di antica origine orientale, che testimonia, assieme al ritrovamento di manufatti orientali tra i corredi tombali, i rapporti commerciali e culturali tra il mondo siculo e quello fenicio-punico.
Nel periodo romano si assistette all’abbandono dell’area, fenomeno comune anche negli altri centri della Sicilia interna, che durante il periodo greco, caratterizzato da continue belligeranze, rappresentavano luoghi isolati e facilmente difendibili. Seguì dunque uno spostamento verso le città situate in zone meno marginali. Solo in età bizantina il centro fu ripopolato e a questo periodo risale una piccola basilica paleocristiana situata nella parte occidentale del complesso delle colline, da cui domina la profonda “Valle dell’inferno”.
Il piccolo borgo medievale, chiamato “Rossomanno” o “Rossimanno”, venne fabbricato sulle rovine dell’antico centro abitato, tra Serra delle casazze e il monte Rossomanno e il periodo svevo vide il suo momento più florido. Il territorio venne infatti infeudato dalla famiglia degli Uberti, che risiedeva nella vicina città di Castro Giovanni (oggi Enna). A questo periodo risalgono il basamento di un torrione in calcarenite chiamato “Torre degli Uberti”, situato in cima al monte Rossomanno, e i resti del paese. Ma nel 1394 questo fu raso al suolo (assieme agli altri feudi Fundrò, Gatta e Polino) dalle truppe dell’allora sovrano Martino IV, il quale volle punire il feudatario Scaloro Degli Uberti, dichiarato “reo di fellonia”, per avere appoggiato la famiglia Chiaromonte nel tentativo di sottrarre a lui il potere e quindi per tradimento verso la Corona del “Regnum Siciliane”. Gli abitanti superstiti vennero deportati nelle vicine città e ancora oggi ad Enna in quartieri come “Fontana grande”, “Pisciotto” e la zona di “S. Tommaso” si parla il “funnurisanu”, il vecchio dialetto di Fundrò e Rossomanno. Il feudo di Rossomanno fu concesso all’Universitas di Enna e in quel momento venne edificato, tra le rovine delle abitazioni, il romitorio dei benedettini chiamato “Conventazzo”, un complesso monastico che fino al 1850 ha rappresentato per gli abitanti di Valguarnera una meta di pellegrinaggio in occasione della “festa di S.Giovanni Evangelista”. Ma in quell’anno l’ultimo romito fu ucciso nel tentativo di derubarlo e da allora chiesa e convento rimasero totalmente abbandonati all’incuria e quindi in fase di lenta degradazione.
Oggi la riserva è gestita dall’Azienda Demaniale Foreste ma gli allevatori e i loro capi di bestiame sono gli indiscussi padroni della vasta area. Il parco è inoltre dotato di una delle maggiori aree attrezzate della Sicilia (vivaio Ronza) che nello scorso decennio è stata vittima di ripetuti atti vandalici.
Come previsto dall’art. 1 della L.R. n.98/81 “la Regione istituisce la riserva nell’ambito di una politica diretta alla salvaguardia, gestione, conservazione e difesa del paesaggio e dell’ambiente naturale, per consentire migliori condizioni di abitabilità nell’ambito dello sviluppo dell’economia e di un corretto assetto dei territori interessati, per la ricreazione e la cultura dei cittadini e l’uso sociale e pubblico dei beni stessi nonché per scopi scientifici.”
Ma come spesso accade ciò che è scritto sulla carta viene realizzato solo parzialmente e le potenzialità di un sito di grande valore naturalistico, archeologico e turistico vengono ignorate e quindi non sfruttate, ma, cosa molto più grave, le perdite e i danni causati da una gestione superficiale diventano presto irreparabili.
Silvia Consolo